Quello che io sto scrivendo in questo momento ha non poca attinenza con l’argomento Edilizi@, recentemente trattato da Paolo.
In effetti, entrambi descriviamo il presente dei luoghi dove siamo nati e cresciuti, e riflettiamo sul degrado e la perdita di identità – la morte della tradizione, la mancanza di una nuova cultura, la solitudine dei contemporanei indigeni – di una terra che è stata molto bella: come tutta la penisola, privilegiata dalla natura – qui, dolcemente continentale, temperata negli eccessi del clima e del carattere degli uomini – e fiorente di un’architettura sublime e visionaria: l’antica Roma, la dolce Grecia riprodotta ai piedi delle Alpi da Palladio, Venezia trionfante di palazzi orientali, di uno splendore più nitido di ogni coeva magione rinascimentale; poi, le ville goldoniane e la campagna intorno, luogo di una civiltà laboriosa e sapiente. In cosa tutto ciò si sia trasformato, non occorre dirlo. E’ noto, e Paolo lo sa e lo dichiara.
C’è però qualcosa d’altro, di più, che a me sembra di riconoscere nei suoi lavori. Paolo non è indignato, non è depresso, non è avvilito da tanto male. Ha, invece, uno sguardo indulgente – affettuoso, come anche nei ritratti di New Yorkers – per quanto limpido e tagliente. E’ severo, è anzi giusto, ma tenero e speranzoso come sono i bambini. Difatti, le sue case sono ingenue: hanno uccellini, finestrelle, sovrastrutture di sghimbescio, giacigli impropri, di certo abitanti assurdi ma appropriati a tanta incertezza. Hanno, queste abitazioni, il tratto dello schizzo di chi disegna sognando e parlando di un mondo insieme conosciuto ed immaginato, visitato nella dimensione della poesia. In questa indulgenza ha tanta parte anche la tenerezza – meglio: pietà – fraterna nei confronti degli uomini infelici che vivono, da schiavi, entro case di cemento più fragili delle capanne dei loro antenati: uomini che credono di essere salvi , e sono invece già perduti nel gorgo famelico della legge economica. La pietà ha un nome: precarietà.
Paolo insegna: precarietà è il tratto tipico dell’artista. Dunque, nella sostanziale incertezza e instabilità dell’edilizia nordestina è almeno presente una sorta di possibile salvazione: senza nemmeno immaginarlo, più gettiamo ed armiamo cemento, più ci abbandoniamo alla corrente capricciosa del vivere; e, più crediamo di governarla e possederla, più ne siamo sommersi fino all’annientamento, di noi stessi ma anche di tutto il male che abbiamo edificato.
Io dico anche: precarietà ha pure il senso del meteco ‘venimos prestados’; ossia, oltre al ‘semo in prestio’ dei nostri padri poveri: la vita ci è data in prestito e dobbiamo restituirla. Tutto ciò che abbiamo deve essere reso, e nella forma che sia più rispettosa del dono ricevuto. Ma le cose, e le case, quelle di Edilizi@ dicono che il prestito non verrà onorato da questi uomini che non conoscono onore; che la terra non è stata rispettata perchè nessun rispetto , da lungo tempo, è più stato riservato alla storia di questo paese; che l’arte non è stata celebrata perchè il bello trova forma solo quando gli occhi degli uomini sanno vedere l’invisibile.
Tra le macerie – visibili ad occhio nudo – di questi edifici appena rifiniti vive la poesia di Paolo, leggera come il canto di un bambino, ariosa come una stanza affrescata da Veronese: edificate, vivete da schiavi, bramate quanto più potete.
Sarete distrutti: di voi e della vostra inciviltà non resterà nessuna traccia se non il disegno di un artista che ha fissato, appena prima della fine, l’agonia dolorosa di una vita indegna della sua storia gloriosa di cose e di bellezza.
Paola Nascimben